La disponibilità del cibo è uno dei principali fattori che condizionano le strutture alimentari dei popoli. Questa affermazione, di taglio economicistico, ci induce subito a dire che, nel fare storia dell’uomo che mangia, dobbiamo anzitutto osservare le sue capacità, anche tecnologiche, di intervenire sulla natura determinandone la produttività. Naturalmente per valutare la effettiva disponibilità del cibo nella società che si vuole esaminare, devono entrare in gioco i livelli di ricchezza dei consumatori non meno che l’efficienza dei mercati, della distribuzione e conservazione dei prodotti.
Coordinatore: Prof. Giampiero Nigro, Università di Firenze
Ricerche di: Francesco Ammannati
Sede dell’incontro: Mercato Centrale
È ampiamente riconosciuto che il cibo rappresenta una questione chiave per l’identità d’Italia, e che oggi le abitudini alimentari italiani godono di popolarità globale. In realtà è ben noto che quello che oggi riconosciamo come “cucina italiana” è in buona parte una creazione storica prodotta da differenti elementi.
Per gran parte della storia liberale dell’Italia unita, lo Stato rimase vistosamente assente in merito alle azioni destinate a migliorare la dieta della popolazione. I governi che si succedettero si limitarono a interventi di supporto alle inchieste parlamentari sulle condizioni di vita degli italiani e a legiferare contro le sofisticazioni alimentari e le frodi. Prima di disordini civili degli anni 90 dell’Ottocento, i governi liberali non disponevano di una chiara agenda riguardo le politiche sociali da intraprendere, che spesso si rivelavano poco più che un guazzabuglio di idee e di buone intenzioni. Inoltre, lo Stato italiano era di per sé povero; la mancanza di fondi impediva un intervento profondo nel settore della salute pubblica. Proprio a causa dell’inazione del governo, il dibattito pubblico sulla questione del consumo alimentare era per lo più incentrato sulla difficoltà degli italiani a sbarcare il lunario. I poveri, i braccianti agricoli, gli operai, tutti tendevano a soffrire, con diversa intensità, un’alimentazione inadeguata e una dieta monotona, anche sulla base degli emergenti standard scientifici internazionali. È probabile che per la maggioranza della popolazione italiana della metà del XIX secolo l’incertezza del vitto abbia rappresentato un problema da affrontare quotidianamente. I resoconti dei commentatori dell’epoca concordano quando si tratta di definire la disponibilità di generi alimentari e la composizione della dieta di gran parte della popolazione: insufficiente la prima, sbilanciata la seconda.
Esiste un’ampia letteratura in merito all’alimentazione in Italia: già negli anni immediatamente successivi l’unificazione, come detto, la questione alimentare motivò la raccolta di informazioni e statistiche relative alla produzione e al consumo di generi alimentari. L’attività dell’Ufficio Statistico nazionale presso il Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio (MAIC) e lo svolgimento di importanti inchieste promosse dal Parlamento hanno reso disponibile una mole di dati tale da consentire all’ISTAT di pubblicare già nel 1957 la ricostruzione delle serie relative a produzione e consumi alimentari per l’intero periodo 1861-1955. Da allora il dibattito degli storici e degli economisti intorno a queste serie statistiche è rimasto vivo, anche se si è spesso riferito all’entità statale nel suo complesso, riservando all’analisi regionale un ruolo subalterno.
Se, citando Roberto Vivarelli, nell’Italia unita si potevano identificare tre distinte aree di consumo, quella della farina di grano, quella della farina di mais e quella della farina di castagne, una complessità non minore caratterizzava alcune realtà, come ad esempio la Toscana, per cui si potrebbe quasi dire che i suoi abitanti vivessero in diverse “Toscane”, tante quanto erano le aree diversamente connotate per le strutture economiche e geomorfologiche dei loro territori. Si pensi al quadrilatero che aveva come vertici Firenze, Pistoia, Viareggio e Livorno; una realtà completamente diversa da tutto il resto, perché al suo interno vi erano otto delle dieci città con più di seimila abitanti e trenta dei quarantatre paesi con oltre duemila anime. Era una zona fortemente antropizzata, dotata di evidenti vantaggi economici che si riflettevano sui regimi alimentari della popolazione. Diversa era la fascia collinare e montana dell’Appennino, dall’Amiata alla Lunigiana, dove a una agricoltura basata sullo sfruttamento delle splendide colline ondulate si affiancava l’economia del bosco e del castagno. Infine ancora diverso era il grossetano con le sue grandi paludi, gli allevamenti di bestiame e le grandi proprietà terriere.
Tante realtà che caratterizzavano una Toscana, quella del tempo dell’unità d’Italia, che ancora stava soffrendo di un ritardo dei processi di industrializzazione e che, quindi, camminava a piccoli passi, con molte contraddizioni. L’intero territorio superava di poco i ventiduemila chilometri quadrati ed era costituito da un terzo di boschi, un terzo di seminativi e un terzo di sodo a pastura. Si pensi che nel 1861, la Toscana aveva 1.827.000 abitanti; di essi il 64,5% viveva in collina e il 22% in montagna, il residuo 13,5% nelle poche pianure non impaludate.
Dunque l’agricoltura era il settore economico più forte, ma non di eccellenza qualitativa, che assorbiva il 54% della popolazione attiva contro il 25% dell’industria Un’agricoltura il cui assetto era essenzialmente basato sul contratto mezzadrile, altra questione su cui riflettere, perché la mezzadria e la coltura promiscua consentivano al contadino di esercitare una propria autonomia gestionale ma nel contempo lo indirizzavano verso comportamenti alimentari molto orientati all’autoconsumo. Gli effetti erano quasi automatici: cercando di destinare la maggior parte dei suoi prodotti al mercato, il contadino limitava la qualità e la tipologia degli alimenti destinati alla famiglia.
Prendendo le mosse dalle considerazioni fin qui espresse, questa ricerca si propone di effettuare una messa a punto della abbondante letteratura esistente sugli svariati, anche se frammentari, aspetti del problema della disponibilità del cibo e dei modelli di consumo alimentare, inquadrandolo in una prospettiva regionale lungo l’arco cronologico oggetto del progetto (grosso modo la seconda metà del diciannovesimo secolo). La documentazione di cui ci avvarremo spazierà dai dati sull’alimentazione di tre inchieste ministeriali (Inchiesta Jacini, Inchiesta Bertani, Inchiesta sulle condizioni igieniche e sanitarie dei Comuni del Regno) svolte all’indomani dell’unificazione nazionale, a quelli desumibili da particolari registrazioni contabili, i bilanci familiari, in cui il capitolo alimentare rivestiva un ruolo determinante. Riguardo a quest’ultimo aspetto, saranno offerti in particolare i risultati dell’analisi di una ricca documentazione, finora inedita, conservata presso l’Archivio privato Martini-Edlmann, in grado di evidenziare le caratteristiche della spesa per il vitto quotidiano di una famiglia fiorentina alto-borghese della fine dell’Ottocento. Un altro caso di studio, basato sui consumi di una categoria sociale ben diversa, sarà rappresentato dallo spoglio dei “Libri della cibaria” tardo ottocenteschi dell’Ospedale di San Giovanni di Dio, conservati presso l’Archivio Storico del Comune di Firenze.
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