Il ventre di Firenze – Il racconto di Marco Vichi

S’infilò nei vicoli più oscuri dell’antico Ghetto, dove durante il giorno nemmeno il sole riusciva a farsi largo. Adesso era notte fonda, e per vedere dove metteva i piedi si aiutava con una lanterna. Vedeva correre i topi, e li sentiva parlare tra di loro con squittii tranquilli. Avanzava sfiorando i muri, abbassando il capo per passare sotto a basse volte di pietra, e osservava nel buio le sagome delle stamberghe e delle botteghe che conosceva assai bene.

Seguendo percorsi tortuosi, entrando e uscendo dai miseri abituri giunse nelle viuzze che circondavano il Mercato Vecchio, dove a ogni angolo c’era un tabernacolo. Ogni tanto alzava la lampada per guardare l’insegna rugginosa di un beccaio o di un venditore di ceste, per leggere il nome di un vicolo, o per fare un saluto a qualche Madonnina che nei secoli ne aveva viste talmente tante che ormai si era rassegnata a sorridere. E intanto ripensava a quando in questo formicaio di stradine puzzolenti e di casupole fatiscenti si poteva comprare di tutto, dal baccalà ai tessuti di seta, dalle cipolle al corpo di una donna, e dove in nessuna ora del giorno e della notte calava mai il silenzio. I nomi delle strade e delle piazze parlavano chiaro: piazza della Paglia, loggia dei Tavernai, via delle Ceste, Piazzetta elle Uova, Largo dei Lupini, piazza delle Cipolle… Un quartiere pieno di vita era stato trasformato in un cimitero, in attesa di essere raso al suolo. Nei vicoli deserti si sentiva solo il fruscio dei ratti e il cigolio di qualche grondaia che oscillava al vento. Salute pubblica, decoro, sicurezza dei cittadini… Erano queste le nobili motivazioni, sostenute addirittura dagli articoli di quello spirito arguto di Jarro, capace di facezie ma anche di alta retorica: dalle colonne della Nazione incitava le autorità a fare piazza pulita il prima possibile di quell’infamia, accendeva gli animi contro la vergogna secolare del Ghetto, che per secoli era stato una sorta di carcere per gente laboriosa attaccata alle proprie tradizioni, e che dopo la sua abolizione si era trasformato in un ricettacolo di delinquenti, di depravazione, di malattie. E come scuotevano il capone, i ricchi signori, leggendo quelle appassionate parole! Eh sì, dobbiamo fare in fretta, non c’è da aspettare un momento di più, ne va della nostra dignità. E poi non è piacevole passeggiare in centro la domenica con le nostre signore, dopo una settimana passata ad accumulare soldi, e vedere tutta quella miseria e quei furfanti a un passo dal Duomo e dal Battistero… Un po’ di rispetto, che diamine! La signora Fiorenza ha bisogno di rifarsi il belletto, e anche in fretta, se vuole smettere di somigliare a una vecchia bagascia… Porca miseria! Altro che somigliare! Firenze ERA una bagascia, e a lui piaceva proprio per quello!

Voltò in una specie di cunicolo immerso nel nero della notte, e dopo pochi passi si fermò di fronte alla porticina socchiusa di una piccola bottega. In tutta la sua vita non l’aveva mai trovata chiusa, a nessuna ora, giorno o notte che fosse. Sopra un’asse di legno era scritto: Osteria dei Malcontenti. Spinse la porticina, si abbassò per entrare e sentì nel naso quell’odore familiare, un misto di vino e di olio fritto e rifritto. Fino a due anni prima era la sua bettola preferita, dove si beveva un Chianti niente male e si giocava a carte, e all’occorrenza si poteva andare nel retro a farsi coccolare da Noemi, una donnetta piccola e tonda, non troppo bella, ma più dolce e tenera di qualsiasi moglie. Alzò la lanterna e si guardò intorno. Il bancone, gli scaffali sporchi, il soffitto di legno infestato di ragnatele. Si sedette su una sedia di paglia e appoggiò la lanterna sul tavolaccio.

“Duccio, il solito…” mormorò malinconico. Sorrise con amarezza, pensando che ogni cosa prima o poi finisce. Non venne nessuno a portargli il vino e le carte. Chissà dov’era Noemi, con le sue giarrettiere sfilacciate e le ciabatte ai piedi. Non l’avrebbe mai più rivista. Nel silenzio gli sembrava di sentire ancora le imprecazioni e gli insulti, le risate, i litigi tranquilli dei giocatori che avevano nello sguardo la nobiltà della sofferenza, e sulle spalle tutti i peccati del mondo. Le donne che frequentavano quel sudiciume erano tutte Maddalene, pronte a piangere sui tuoi piedi per poi asciugarteli con i capelli, pur di guadagnare un po’ di soldi e magari un sorriso. Se Gesù Cristo fosse tornato, è qui che sarebbe venuto…

“Duccio… Duccio… Perché mi hai abbandonato?” sussurrò nel silenzio, sorridendo di quella innocente bestemmia. Ed ecco che dall’angolo più oscuro dell’osteria venne avanti un uomo grasso, asciugandosi le mani nel grembiule.

“Non ti ho abbandonato, Goffredo” disse l’oste.

“Duccio… Che ci fai ancora qua?”

“Tu che ci fai?” borbottò Duccio. Aveva sopra la testa una sorta di aureola color della vinaccia.

“Distruggeranno tutto” disse Goffredo.

“Non ci pensare.”

“Seppelliranno il cuore di Firenze” disse Goffredo. Si passò una mano sulla faccia, per sentire i peli della barba ricresciuti dalla mattina. L’oste sparì di nuovo nel buio, e tornò con un fiasco di vino e due bicchieracci tozzi.

“Ci facciamo l’ultimo?” Non aspettò la risposta, e riempì i bicchieri fino all’orlo.

“A cosa brindiamo?”

“Alle macerie” disse Duccio.

CONTINUA…

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